Biografia

Dino Campana

C’è chi nasce con la camicia, c’è chi, come Dino Campana, nasce poeta. Accanto a lui la poesia si sente, simile ad una scossa elettrica, testimonia chi lo ha conosciuto.

Non è quello che sogna il padre Giovanni per il suo primogenito, venuto alla luce nel segno del leone, il 20 agosto 1885. Né la madre Fanny, fiera di quel figlio robusto ed intelligente che all’età di tre anni recita l’Ave Maria in francese. Devono però prendere atto,quando compie quindici anni, che vive in confusione di spirito, è un ribelle, tormentato, impulsivamente irritabile, che ama la solitudine e la vita errabonda.

A Marradi, il paese natale, si spettegola su questi suoi comportamenti stravaganti, commiserando i poveri genitori e battendo l’indice sulla fronte, per significare che il figlio del maestro Campana non c’è tutto. Nonostante ciò ottiene la maturità, si iscrive all’Università di Bologna, non a lettere come ci si poteva aspettare, ma a chimica pura. Vuole compiacere i genitori, lo zio Torquato e tutta la famiglia che lo vorrebbe farmacista.

Viaggi e dintorni

Non frequenta, non dà esami e al padre che gli manda una cartolina vaglia con poco denaro e molti baci, risponde: «Meno baci e più quattrini». Fugge, oltrepassa le Alpi e viene rispedito a casa. Paga la bravata con un ricovero forzato nel manicomio di Imola e con una prima diagnosi di demenza precoce siglata da un punto interrogativo. È solo l’inizio di un susseguirsi di fogli di via, di ulteriori ricoveri, di tanti viaggi fin oltre l’Oceano, in Argentina. Ma la musica dolce della partenza e del ritorno lo riconduce a Marradi, ai suoi monti di cui apprezza l’aspetto primitivo e la linea severa e musicale che canta nei suoi versi. È cambiato nell’aspetto, porta una lunga capigliatura e una barba color biondo-rame, è stravagante nel vestire e un po’ strambo, ma nell’ambiente goliardico bolognese, dove ritorna, non è diverso dagli altri e si trova a suo agio. Anzi lo apprezzano, perché sa parlare di arte, di letterature straniere moderne, perché sorprende con le sue prose e i suoi versi, custoditi nelle ampie tasche del giacchettone, da dove emergono quando gli viene l’estro di rileggere e di rifinire. Non mancano a Dino l’iniziativa, il coraggio e la consapevolezza della sua arte che gli danno l’ardire di presentarsi a Soffici e Papini, illustri letterati fiorentini, a consegnare il quaderno manoscritto dei suoi testi per averne un parere.

Crowfounding ai primi del novecento

Quando Soffici gli comunica che lo ha perduto, non si perde d’animo e con determinazione riscrive tutto. Ha bisogno di essere stampato per dimostrare che esiste e tenta l’impossibile: una sottoscrizione. Aderiscono 44 concittadini che convince, racconterà scherzosamente, con il foglio della sottoscrizione in una mano e la doppietta a tracolla. Nel luglio 1914 finalmente vede la luce il suo unico libro di poesia e prose liriche i Canti Orfici stampati a Marradi dal tipografo Bruno Ravagli. È un’edizione in economia su carta giallina, con refusi in quantità e con una dedica sorprendente: «A Guglielmo II imperatore dei germani l’autore dedica». Spiegherà in seguito l’intento di fare dispetto al farmacista, al sindaco all’arciprete del suo paese, mentre si affretterà a cancellarla o ad eliminarne la pagina. Gli acquirenti sono pochi, le recensioni favorevoli scarse, le condizioni di salute precarie… non gli resta che rifugiarsi nella natura. E poi…?

E poi arriva l'amore

E poi arriva l’amore. Si preannuncia con una lettera e la richiesta di conoscerlo ed esplode in una passione travolgente fin dal primo incontro. Rina Faccio, alias Sibilla Aleramo - anagramma di amorale - è rimasta “abbacinata” dalla lettura del suo libro e si offre a Dino, dolce e tenero amante, lusingato dalle attenzioni di una scrittrice famosa e bella donna. Il rapporto diventa presto difficile, la gelosia di Campana si trasforma in violenza: non vuole diventare uno dei tanti amanti. Sibilla lo lascia, non si fa più trovare ma lo esaspera, scrivendogli lettere piene di passione, mentre lui la supplica di tornare. Sembra non avere capito che Campana non è uno dei tanti intellettuali amati, ma uno spirito elementare, una forza della natura, un vero grande artista.

Epilogo

La delusione, l’abbandono, la fine del viaggio che “chiamavamo amore” alimentano la sua inquietudine, quel male di vivere che lo porterà definitivamente in manicomio. Ne uscirà solo da morto, quattordici anni dopo, il 1° marzo 1932. Aveva scritto in una lettera al pittore Carlo Carrà, un mese prima dell’internamento: «Credo che è così dolce sentirsi una goccia d’acqua, una sola goccia ma che ha riflesso un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome!».

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